Saturday 11 December 2010

ReVamp

Niente da fare: l’eponimo debutto dei ReVamp ed io non riusciamo proprio ad andare d’accordo nonostante i miei ripetuti tentativi di abbordaggio.


Dovendo trovare un aggettivo per descriverlo, opterei senza dubbio per “rumoroso”. Davvero, nessun album più di questo incarna il luogo comune, sbagliatissimo, del metal che produce rumore e nient’altro. Ogni singola componente di quest’ album, batteria e chitarre in testa (ma anche la voce), è talmente orientato a voler essere tVue a tutti i costi da non lasciare spazio ad altro. In più è incredibilmente lungo, sia in termini di effettivo minutaggio che di percezione soggettiva, il che è un grosso demerito per un album che presenta così poca varietà.
Volendo prendere la tracklist, direi che potremmo dividerla facilmente in una prima parte (1-3) musicale quanto una martellata su un’incudine, una parte centrale (4-8) mediocremente zoppicante, ma che comunque presenta le parti più interessanti del disco, ed un’ultima (9-13) fiacca e stentata. Pur distinguendosi in questo modo, le tre parti hanno in comune una caratteristica fondamentale: escludendo quelle da buttare tout-court, in genere le canzoni con una buona strofa hanno un ritornello penoso, oppure vice versa.

Le prime tre canzoni, Here’ s My Hell, Head Up High e Sweet Curse, sono accomunate dal voler essere il più possibile tVue e rumorose, la prima con una batteria davvero spaccatimpani, la seconda con dei riff di chitarra aggressivi quanto insipidi e la terza incarnando perfettamente lo stereotipo della ballatona (molto) power che vorrebbe essere strappalacrime ma finisce solo per gridare “skip me!”. In particolare, Here’s My Hell, che tenta di rendersi interessante mescolando una parte strumentale fast&furious e vocals lente pseudo-operistiche, finisce per essere solo un’accozzaglia male assemblata, mentre Head Up High strizza vergognosamente l’occhio alle sonorità oh-so-heavy ma ruffiane della peggiore Doro Pesch, classificandosi come ultima ruota del carro.
Le cose migliorano leggermente con Million, il cui intro elettronico aggiunge un po’ di varietà e nella quale, tutto sommato, il ritornello riesce a non far perdere troppo nonostante la sua generale fiacchezza, e con la commercialotta ma simpatica Break, che si riprende soprattutto grazie all’interpretazione di Floor sul finale; ma quando arrivano le tre In Sickness ‘ Till Death Do Us Part, ricominciano i sospiri, col primo episodio All Goodbyes Are Said che parte bene ma diventa imbarazzantemente banale lungo il percorso, Disdain che gioca di nuovo a fare la heavy a tutti i costi e la sola Disgraced che risulta più o meno interessante (e, a proposito, qualcuno dica ai Jansen, lei e Mark, che hanno rotto le palle con le canzoni a puntate).
L’ultima parte è un agglomerato indistinto di canzoni che, con il loro voler essere sia heavy che orecchiabili, finiscono per diventare soltanto insipide, e gli unici episodi degni di nota sono The Trial Of Monsters, che fa cadere le braccia col suo sembrare tirata fuori da “Come fare il sinfonico nota per nota, manuale per la scuola media inferiore”, e I Lost Myself, altra ballatona, che stavolta fa il verso a qualche bell’episodio degli After Forever senza riuscire ad avvicinarcisi di molto.
Menzione a parte invece per la bonus track No Honey For The Damned, forse la migliore del lotto, che nonostante il ritornello elegiaco da taglio di vene presenta una strofa bella dinamica e interessante.

Se poi, ad un disco nel quale su quattordici canzoni totali si salvano tre episodi e mezzo, si aggiunge anche la tendenza tutta morteniana di Floor a continuare a riciclare ancora ed ancora le stesse tematiche delle lyrics di Remagine, non c’è da sorprendersi se la canzone più interessante suonata dai ReVamp è la cover di Bad Romance di Lady Gaga che propongono live (considerando quanto spesso la clicco su YouTube, se l’avessi sull’iPod avrebbe minimo una cinquantina di passaggi, paragonati ai cinque per canzone dell’album). Per un’artista del calibo di Floor, come cosa è abbastanza inaccettabile. Per cui, la signorina Jansen dovrebbe mettere un attimino da parte la sua amicizia con Doro Pesch e cercare di smettere di farle il verso (anche vocalmente), così da non gettare alle ortiche la classe che musicalmente ha sempre avuto ed evitare di ritrovarsi a cinquant’anni sul palco vestita come l’espositore del negozio di ferramenta.

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